L’arrivo in India
Durante il volo Francoforte – Chennai, guardo un film indiano, scopro solo a metà che si tratta di un kolossal della durata di ben 180 minuti… ma ormai ci sono e lo vedo tutto. Canti, colori, buoni sentimenti, lieto fine, amore. Piango più volte come davanti a un cartone animato di Natale, con poco sonno addosso ed emozioni agrodolci iniziate già da molti giorni prima della partenza per questo viaggio dalla destinazione chiamata India.
Un nome che ancora è ricco di idealizzazioni, aspettative, racconti di altri, libri letti, immaginario depositato sulla mia pelle da quando sono ragazzina.
Arrivare in questa terra che è notte ha un che di dolce e onirico, non ti fa rendere bene conto di dove tu sia perché il buio scontorna le forme e il sonno ti fa ancora oscillare tra i vuoti d’aria dell’aereo e lo sballo del fuso orario, ma appena uscita dall’aeroporto ecco cogliermi, come prima ventata sulla pelle scoperta dalle giacche invernali del dicembre del continente appena lasciato, una folata di aria umida e calda con odore forte misto tra fiori e gasolio, e poi, sarà una costante a cui non farò quasi più caso, un suono intermittente di claxon e trombette, da vicino e da lontano, come se nella notte non esistesse riposo.
Ci si accorge subito essere in un posto molto diverso da come siamo abituati noi occidentali, anche se sono passati solo pochi minuti. L’oscillare, il curvare repentino, il fare il pelo ad altre auto, il suonare a intermittenza del piccolo taxi su cui sono appena salita e di tutte le auto in circolazione in contemporanea, è il primo contatto giù vero con quello che è l’India. Non i teli colorati che compri nei negozietti in occidente e su cui sogni orizzonti idilliaci, no l’India non è quel sogno … ma ha a che fare l’assordante suono del traffico e lo scoprire che le trombette sono quelle dei risciò gialli, che suonano di continuo senza apparente motivo, solo per manifestare la propria presenza. Scopro già da quella notte che gli indiani suonano i claxon solo quando sono in movimento, come una musica, o una risata di gioia o anche “Hey ci sono anch’io mi senti?”. Invece quando sono in coda e fermi, sono immobili, pazienti e silenziosi. Aspettano.
In fondo, una bella saggezza anche questa, a che è mai servito suonare in una coda se tanto non ci si può muovere? E se non ci si muove è perché non si può, sennò non si sarebbe nemmeno formato l’ingorgo, quindi tanto vale aspettare, e farlo in silenzio.
Ed è lì che in questo basculante e rumoroso modo di percorrere le prime strade fuori dall’aeroporto, che le vedo. Proprio in mezzo a quella che da noi potrebbe essere considerata una tangenziale.. (?).. Uno svincolo per tutte le direzioni (?!!) .. appena usciti da un aeroporto internazionale..(??!!). Eccole sono proprio lì, al centro strada, tra un claxon e l’altro, sono loro, a cui mi affezionerò mano a mano con lo scorrere del tempo, tanto da non poterne più fare a meno: le mucche! Le mucche sacre.
Tutto a posto, non è un’allucinazione…. come quando nei sogni di notte puoi anche accettare di vedere asini che volano o cadere da un burrone senza sfracellarti, ora inizia il tuo sogno e sai che greggi numerosi di mucche, lente e flemmatiche che ti vengono incontro in mezzo al traffico dell’una di notte, facendo rallentare motorini, risciò e quant’altro, sono la cosa più bella e preziosa di questa terra. Vedrai gli autisti passargli di fianco quasi sfiorandole con la più assoluta noncuranza ma anche con quella che posso percepire come una certa religiosità.
In strada ci sono anche loro e questo è un dato di fatto, come per noi lo è che non ci siano, fanno parte delle strade e delle mille cose che il mio occhio dovrà imparare ad abbracciare.
Cambiano le coordinate spazio temporali, anche se nessuno te l’ha davvero mai spiegato che accade da subito e poi continua sempre di più come in un viaggio allucinogeno in cui tutto convive, l’orrido e il meraviglioso, l’incanto e l’orrore. Succede e forse non te lo spiegano prima per non rovinarti la sorpresa, forse perchè per ognuno è un viaggio diverso e non si può raccontare, però ti chiederanno più volte quella domanda sibillina, con il sorrisetto di chi la sa lunga “Prima volta in India?” e ancora lo stesso sorrisetto di fronte al tuo annuire, taceranno senza nessuna spiegazione.
Le mucche brucano nei rifiuti che sono ovunque, sempre nella famosa tangenziale l’odore misto di fiori, gasolio si unisce alla puzza di fogna a cielo aperto e mentre scorgo le palme, gli eucalipti, le risaie, le discariche, vedo anche una mucca allatta i suoi vitelli in piedi al centro di un incrocio, poi lungo la strada che a tratti diventa sterrata ci sono galline, polli, resti della giornata al suolo. All’orecchio mi giungono suoni stridoli di cornacchie e altri rumori imprecisati di animali, inizio a scoprire le lamiere delle loro case, baracche e negozi, assemblate le une alle altre, sbarrate alla rinfusa per essere riaperte il giorno dopo, manifesti strappati e insegne rotte. Più lontano i grattaceli di Chennay che sembrano estendersi per chilometri tutti uguali, poi ancora tratti di strada buia e sterrata, buche nella strada, ancora cemento, mucche illuminate dal faro del taxi, tutte vicine a tenersi nel sonno, piccoli accrocchi di altre baracche, odori, non li distinguo più, musica indiana dal taxi e da quelli vicini che incrociamo, auto che ondeggia. Ho sonno ma sarebbe comunque impossibile dormire, perché s’interromperebbe il sogno o incubo a seconda, che sto facendo da quando sono atterrata in questa terra.
Proseguo come trasportata da qualcosa di immenso che non posso capire, la casa è lontana, tutto è lontano adesso, ma dentro al petto, vince una felicità immensa, che mi fa tenere gli occhi spalancati al finestrino. Come fosse la prima estate della mia vita e annusassi il primo mare dei miei quattordici anni.
Inizio a capire come una cosa cosa certa, che è meglio che inizi a non opporre troppa resistenza alle cose e cominci ad affidarmi a quello che mi circonda. Ho quasi quattro ore di auto in questa notte così sospesa, estiva e calda come l’insieme di tutte le estati della mia vita, che nemmeno se le sommassi tutte quante potrei raggiungere questa sensazione di totalità di luce che mi avvolge.
L’autogrill indiano è una baracca come quelle precedenti appena sorpassate e da sorpassare ancora. Il nostro autista a un certo punto si ferma lì di tra queste quattro assi di legno e lamiera messe insieme, in uno spiazzo di ghiaia e sterrato in cui ci sono altre auto come la sua. Vedo alcuni occidentali rimanere dentro le auto ancora intonti e frastornati come lo sono io, appena appoggiati alle portiere come se l’auto fosse l’unica terra ferma a cui poggiarsi. Gli altri autisti, tutti rigorosamente uomini sono prendere da bere e da mangiare, ululati di cani randagi intorno, sparpagliati pattume e altri generi di alimenti al suolo, altre mucche che cercano cibo. Il calore della giornata di sole che viene rilasciato dal suolo.
Inizio a scoprire un’altra usanza che sarà poi un’altra delle cose normali che farò anch’io, dapprima con una certa riluttanza e poi con disinvoltura: le scarpe sono tutte fuori dalla baracca di cui si intravede solo qualche metro di un interno scuro e col pavimento ricoperto di strati e strati di unto e cose non troppo identificate: loro all’interno sono tutti scalzi.
Arriviamo alla nostra guesthouse che sono circa le quattro di notte passate. Le strade di Pondicherry, antica colonia francese che affaccia sul mare, sono vuote e con la stessa atmosfera di degrado che ho respirato in tutta la strada fino a lì e anche se so che è una cittadina di quelle meno fatiscenti dell’India, rimane lo spaesamento di tutto quel caos e che vedo accatastato ovunque.
Le strade si dividono in quelle francesi, indiane e musulmane. Nel quartiere francese riconosco delle case di chiaro stampo coloniale, fanno effetto lì in quell’atmosfera densa di odori forti in cui a pochi metri scorre la fogna e poco più avanti e ovunque cani, ferraglie, latrati.
Quando arriviamo di fronte alla porta della nostro alloggio, tutto è immerso nella pace e nel sonno, capirò nemmeno un’ora e mezza più tardi, che quel poco tempo che intercorre tra la mezzanotte circa e il giungere dell’alba, è l’unico in cui l’India può avere un po’ di requie e silenzio. Poco prima dell’alba inizieranno già i canti, i mantra e i riti devozionali nei vari templi, i mercati, i motorini, le auto, i risciò, le urla, la vita di tutta l’India che ripartirà come un formicaio fitto e immenso con il sorgere del sole.
Suoniamo più volte il piccolo campanello della porta, Aurodhan, c’è scritto davanti all’ingresso, con foto di ballerine indiane e strumenti musicali come il sitar, l’arpa e piccoli tamburelli. Ci apre dopo qualche minuto che a me paiono ore interminabili, un omino molto piccolo di statura che si stropiccia gli occhi per il sonno e che non nasconde il suo disappunto per l’orario. Ci guarda come se non si aspettasse minimamente la nostra venuta, anzi continua a chiederci chi siamo ( le nostre mail erano state dettagliate sui particolari del viaggio..) ma siamo in India e capisco molto presto che devo abbandonare il modo di ragionare occidentale, per non parlare del modo di ragionare di Milano.
Non che mi appartenga granchè la cosiddetta milanesità, ma la precisione e la puntualità, credo siano parte di me ormai, non esagerati, ma ho una chiara percezione dello scorrere delle ore della giornata. Ecco, qui tutto questo va dimenticato: lo scorrere del tempo come lo intendiamo noi, la programmazione del futuro, la comunicazione via mail o messaggio, sono qualcosa di cui loro spesso non conoscono il significato e più anche tu se ne dimenticherai e più velocemente lo farai, più si eviterà di arrabbiarsi inutilmente.
Così sono quasi le quattro e mezza di notte e poco importa se c’è sonno, stanchezza, fuso orario, sete, perché l’acqua l’ho finita in aereo e poi siamo state un’altra ora buona in coda davanti all’ingresso immigrazione, ora l’omino si prende tutto il tempo necessario per capire chi siamo. Sfoglia un enorme registro scritto a mano, per cercare la prenotazione con una lentezza indicibile, ci parla con il suo inglese ai limiti dell’incomprensibile mentre non trova i nostri nomi nel grande quaderno e per un attimo mi sfiora l’idea che per chissà quale motivo, non esista nessuna stanza e che in un secondo mi ritroverò fuori in strada all’alba con la mia valigia, le mucche, le baracche e le cornacchie nere.
Mi giungono queste paure per frazioni di secondo qui in India, come quando mi perderò per strada, come ci succederà i giorni a venire o quando non ritroverò più le mie coordinate che ti riportano a terra; la terra sicura del conosciuto, logico e senza sorprese, del programma e dell’ordine di priorità. Sballerà tutto, oltre al bioritmo in testa.
Mi accadrà ancora e ancora, quando gli indiani mi parleranno tutti insieme attorniandomi con i loro occhi così profondi da non trovare la fine, mi supplicheranno con le mani protese per cercare di vendermi qualcosa e chiedere dei soldi e succederà ancora quando non riuscirò a farmi capire, quando avrò sete o fame ma saprò che dovrò cercare ancora lungo senza sapere bene dove, tra indicazioni che non comprendi e vie che sembrano una uguale all’altra con distanze infinite, per trovare un posto dove vendono acqua in bottiglia con il tappo sigillato e per cercare di capire bene cosa ti daranno da mangiare questa volta stando attenta a non beccare virus intestinali, o alla peggio tutto il genere di malattie di cui tutti, prima di partire, ti hanno fatto una testa così.
Queste frazioni di secondo di panico ancestrale che ti mette in contatto con l’essenza più antica della vita dentro di te, avverranno sempre meno con il passare dei giorni e delle settimane, ma nelle prime ore saranno un continuo pompare di energia e sangue al tuo cuore che si gonfia e sgonfia a intermittenza e a tutti i tuoi centri nervosi, per poi riprendere il normale battito. Un continuo susseguirsi di istanti di totale meraviglia, bellezza, grazia, stupore, e poi di nuovo paura, assenza di fondamenta, sensazione di perdita, vertigini, caldo, affanno e voglia di tornare a casa schioccando le dita.. Sarai spompata, stanca a livelli inimaginabili, nemmeno il caldo dell’agosto più caldo che hai vissuto, è paragonale a questo caldo, che non è nemmeno quello estremo della stagione, ma è comunque tanto per me che arrivo dall’inverno e ancora non ho dormito, nè il mio corpo ha registrato di essere davvero arrivato qui.
L’omino dopo i minuti di attesa infiniti, si mette a fare telefonate e riusciamo a scoprire che non siamo alloggiate lì, ma in un’altra sede distaccata, così ad una, ad una l’omino ci carica sul suo scooter, bagagli in mano, sulla testa, dove capita e via….. verso strade ancora più intricate. Non siamo più nel quartiere francese che aveva una parvenza di ordine, ma siamo in quello pienamente indiano. Cerco di memorizzare la strada che fa con il motorino, tra vie minuscole, asfalto con i buchi e capanne, ma non ci riesco. Altra fitta al cuore, discesa nella notte più nera, nervi contratti, occhi lucidi e vigili. Chissà dove ci sta portando…quando mai mi è venuto in mente di venire in India… altro momento in cui non posso fare altro che affidarmi.
Abbracciata a un uomo sconosciuto indiano che guida come un forsennato su uno scooter malconcio, con la mia valigia rossa e l’anima che temo di perdere oltre la prossima curva. Intorno capanne di paglia, baracche di lamiera e la prima visione di mandala disegnati per terra con i colori, di stelle di Natale appese ad alcune porte in stradine che non possono essere paragonate a nulla che ho visto prima di ora.
Allora è questo il nuovo che fa tanta paura agli esseri umani?
Si, capisco il motivo, la mia casa in Italia è un miraggio caldo e lontano, cani randagi che latrano e si azzuffano tra di loro con un suono spaventoso, una sensazione di caduta nel baratro, ma anche incredibilmente di estrema forza e vita che mi oltrepassa come io fossi trasparente e potessi solo far leva su un piccolo filo che mi tiene su, totalmente presente a me stessa, vivida, spaventata ma felice allo stesso tempo, incosciente e stanca.
Il motorino si ferma e ci scarica dietro ad un muro con mattoni a vista e ferri arrugginiti che sporgono e un cancello. Davanti una casa in costruzione abbandonata di cui si vede cemento armato delle fondamenta, accanto e intorno macerie e detriti per gli ultimi monsoni che hanno buttato giù un sacco di case e dissestato ancora di più le strade. Entriamo e l’omino con lo scooter schizza via con un saluto rapido denso di sonno. Dentro, oltre il muro la meraviglia: un giardino indiano come da sempre li si immagina, palme, mobili in legno antichi posizionati nel patio, un Buddha e vari colori di stoffe e drappeggi. Un altro signore indiano ci viene incontro, questa volta è più anziano ha i capelli bianchi e un sorriso che è grande come un abbraccio e scalda come una madre. Ci fa un thè caldo e corre a comprarci dei biscotti nei baracchini in strada che stanno aprendo per l’alba.
E’ calore e gioia tutta insieme, mangiamo i biscotti con le prime luce della notte che muta a giorno e quando finalmente tocco il letto in una stanzetta proprio sul giardino, tra l’odore di muffa umida che proviene dai muri e la sensazione meravigliosa delle lenzuola sulla pelle, inizio a sentire rumori fortissimi dalla strada, come se un pullman stesse attraversando la stanza e le persone urlanti le avessi accanto: i motorini, le trombette dei risciò fossero sopra il nostro letto, i canti e le litanie della preghiere in tutta la stanza.
La piccola finestra che dà sulla strada non ha i vetri, è totalmente aperta e l’unica cosa che ci separa dalla strada è un vecchio muro tirato su da mattoni e lamiera. Lo scopro l’indomani con la luce del giorno, ora mi lascio cadere in uno strano sonno incosciente, in un luogo imprecisato della terra di cui ho perso tutte le coordinate geografiche, tra rumori e misteri per me sconosciuti di una città indiana che all’alba si risveglia.
A proposito di stelle…
Solstizio d’Inverno quest’anno cadrà il 22 Dicembre, alle ore 5:48 italiane.
Inizia la stagione della luce, ho attraversato il giorno più buio dell’anno.
Anna Elisa
Foto originali copyright Anna Elisa Albanese