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Anatomia dei primi sentimenti di abbandono: Filippo

Autobiografia astrologica: Filippo

 

 

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Nell’ estate della prima separazione dei miei genitori avevo sei anni.

Non sapevo cosa farci di quell’estate, non sapevo perché mi trovavo all’aeroporto, non sapevo perché mia madre aveva quel viso triste che non riuscivo nemmeno a guardare.

Non sapevo nulla delle estati e del tempo, di quanto dura un mese o un giorno né tanto meno quanto duri un’estate o un assenza.

Mi trovavo lì in quell’aeroporto enorme e non è che avevo molto capito che mia mamma non venisse in vacanza con me e papà, e non avevo nemmeno compreso il motivo per il quale tutto fosse così agitato e di fretta, e perché mio padre non le parlasse molto volentieri, e perché lei non dicesse nulla e non si arrabbiasse di questo e non ci seguisse.

Tutto rimaneva racchiuso nel mio sguardo, muto perplesso ma intanto in silenzio il mio cuore rotolava per terra e nessuno lo poteva raccogliere.
Mio padre era frettoloso, nervoso, non gli piaceva avere una figlia così fredda e taciturna, con un magone nella gola che andava su e giù le faceva rallentare ancora di più i movimenti delle gambe – quasi che piantarsi come un albero immobile in mezzo all’aeroporto fosse l’unica soluzione in mezzo al frastuono che mi girava intorno.

Fu lì che mia madre lì fece la sua promessa: mi attaccai a quella promessa come un assettato ad un’oasi nel deserto, avevo bisogno di quella promessa come linfa , altrimenti sarei morta lì , in quell’aeroporto. Lei promise che sarebbe venuta nel terrazzo – quello in alto all’aeroporto dove partono gli aerei. Sarebbe venuta a salutarmi, così io dall’alto l’avrei vista, avrei visto ancora il suo viso, e l’avrei salutata con la mano.
Era la prima volta che prendevo l’aereo, mi sembrava normale e ovvio che io dal mio oblò potessi salutare mia madre che per un inspiegabile motivo rimaneva a terra e mi abbandonava.
Sono salita su quell’aereo con un briciolo di forza solo perché aspettavo quel momento.
Vederla sul terrazzo per me.

Ma ciò non accadde.

Mi ricordo l’oblò, il cielo, la cintura di sicurezza, le lacrime strozzate, l’impotenza, la rabbia, il silenzio, il rombo dentro, come musica eterna che ti sciacqua gli occhi e riparte subito da capo senza tregue. Mi ricordo il mio cercare, l’affanno come cercassi la vita stessa mentre  me ne stavo con la cintura allacciata e l’aereo stava per librarsi in volo –  il terrazzo sotto di me affollato dall’alto pieno di gente, e poi sempre piu’ piccolo, piu’ lontano, vestiti colorati, puntini indistinti.
Ed ecco l’assenza. La prima grande assenza. La prima bugia.
Mia madre non era salita sul terrazzo per me. Me lo disse in seguito al telefono come la cosa più normale del mondo. O forse mentì dicendo che era salita sul terrazzo ed ero io a non averla vista, ma io scoprivo sempre le bugie quando le diceva, perché non le sapeva dire.
Ora ero davvero sola – il mondo intorno m’inghiottiva e l’aereo mi faceva andare così lontano che mi sono sentita gettata come una meteora nello spazio, il mio spazio vuoto di stelle, le mie orbite solitarie di Saturno.
Allora ho respirato il sangue che mi usciva dalle viscere e ho pensato che non avrei parlato mai più. A nessuno, e da quel giorno non avrei nemmeno piu’ creduto alle parole delle persone.

In Spagna là dove eravamo planati eravamo ospiti a casa degli zii, Donatella, sorella del papà, e Franco, suo marito  che era deputato al parlamento – intorno a loro si muoveva un mondo di grandi e sconosciuti che parlava una lingua che non conoscevo e di cui loro non conoscevano la mia.
In questa isola per me lontana come le galassie dei film di fantascienza, l’isola di Maiorca, non c’era la luce elettrica la sera e si usciva con la pila. Sopra la nostra testa c’erano degli immensi cieli stellati che mi spaventavano tantissimo, la natura selvaggia mi pareva allora qualcosa di terribile, quell’immensità solitaria mi stringeva come una morsa.

Guardavo questo mondo di adulti intorno a me mentre andavamo a mangiare, sempre molto tardi la sera e con un gran clan di gente a seguito, amici degli zii, mi diceva papà – a fare il politico si hanno tanti amici – pensavo, e sembravano tutti felici, ma la zia mi diceva che non tutti erano amici, e trovava sempre dei commenti negativi o delle strane storie su alcuni, ma poi però quando li rivedeva gli sorrideva, così che io non capissi mai chi era amico o nemico di chi o che cosa.

Le cene erano interminabili, anche quando non si usciva al ristorante c’era spesso gente in casa o si andava a casa di altri e tutti parlavano continuamente, ridevano, vociavano. Mio padre era anche lui in mezzo a tutte queste persone, io lo guardavo in silenzio da lontano, intimidita e terrorizzata per la sua lontananza, orgogliosa nel mio silenzio e offesa per la sua sottile astratta ed imprescindibile distanza.
Non ricordo ora lucidamente se pensavo alla mamma lontana, forse ero riuscita con una sorta di controllo personale sulle emozioni a cancellare anche il desiderio per lei e il senso di mancanza. Ero talmente arrabbiata per la storia del terrazzo dell’aeroporto e per il fatto che non fosse venuta con me lì, che cercai di togliere dal cuore il mio bisogno di lei. E come era accaduto per la nonna, ce la feci senza troppa difficoltà.

Diventai così amica di Filippo, bambino gracile come me, con gli occhi stretti e lunghi come quelli di un gatto, figlio di una madre alcolizzata e di un padre che ultra miliardario lo considerava uno scemo, fratello di due sorelle più grandi che lo trattavano come un pupazzetto.

Filippo era perfetto per me.

Anche se avessi avuto altra scelta io avrei comunque scelto lui. Era il fratello che avrei sempre voluto avere. Lui fu il mio primo complice. Insieme a Filippo potevo stare nel mondo, distante dal mondo, e riparata all’interno del nostro mondo. Insieme eravamo un’isola felice, insieme eravamo forti – quello che ci succedeva al di fuori noi lo filtravamo con il nostro sguardo, potevamo avere dei segreti tutti nostri, potevamo stare nel territorio insondabile dei sogni e dei misteri non terreni.

Potevamo essere ancora bambini in un mondo di adulti distratti ed eccentrici. Potevamo coltivare già la prima maliziosa forma d’amore contorta e morbosa, assoluta e dirompente nelle nostre interminabili ore passate insieme.

Solo molti anni dopo, quando avevo più o meno quindici anni, mi dissero che Filippo era morto. Era successo di notte a Maiorca in un incidente d’auto in quelle strade senza lampioni; lui allora avrebbe avuto sedici anni. Mi avevano riferito le voci quasi rammaricate dei miei zii che aveva iniziato a bere come la madre, e che era stato un incidente procurato sicuramente per colpa del suo stato e per le brutte compagnie che aveva iniziato a frequentare, “C’era anche l’uso di droghe…” disse mio zio con un tono di voce simile ad una sentenza.

Li avevo guardati in silenzio fino in fondo dei loro occhi e mi ero chiesta, cosa si nascondesse là dentro, nella loro bocca digrignata e oltre la loro così maestosa alterigia supponente, e se in qualche zona remota della loro coscienza conoscessero la parola pietà.

 

Anna Elisa 

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Io e Filippo, Maiorca 1981

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