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Camminando in India

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Camminando in India

 

 

In India nessuno è mai solo, piccoli accrocchi di famiglie molto vaste, oppure gruppi di giovani, uomini tra di loro e donne insieme di varie generazioni differenti, nonne, mamme, nipoti. Tutto ha un sapore che sa molto di primordiale, è ancora molto forte la tradizione dei matrimoni combinati, della donna che ha pochissima libertà di scelta se non nulla, nelle famiglie povere la fanciulla deve assolutamente arrivare vergine al matrimonio, pena il ripudio e il risarcimento danni di una cifra sproposita alla famiglia del marito, pari a tre volte quella della dote della sposa. Una somma tale di denaro da mandare in totale fallimento intere generazioni, oltre al disonore causato.

 

Eppure nonostante la presenza di queste forti limitazioni alla libertà personale, soprattutto nel versante femminile, io vedo molti più sorrisi e gentilezza che in molti altri posti del “nostro mondo” civilizzato e avanti nei tempi. Sono i sorrisi di quei momenti di libertà e piacere che possono essere goduti nel camminare insieme, o anche nel poter stare in una giornata senza lavoro. Spesso nelle zone non troppo degradate, la domenica, ci sono le famiglie di classe medio-benestante, in gita. E’ un giornata di grandi passeggiate lungo il mare e pellegrinaggi nei vari templi del Tamil. Si possono vedere famiglie complete con bambini e parenti vari, tutti vestiti a festa con colori sgargianti e donne che indossano sari di sete sontuose.

Si vedono anche gli spostamenti degli appartenenti alle varie correnti religiose che si muovono in folti gruppi, tutti vestiti di un determinato colore, i tantrici per esempio sono tutti con abiti rossi di tutte le sfumature, un’altra corrente di tantrici sono solo di colore nere, con il gonnellino minuscolo sulle gambe, o delle semplici stole nere, i rinuncianti saniasi, a petto nudo, il mala della preghiera al collo e il piccolo doti nella gambe.

 

 

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Mi accade spesso di venire fermata da facce sorridenti di ragazzi indiani molto giovani, al massimo vent’anni, che mi chiedono di fare un selfie insieme a loro o di essere fotografata insieme a tutti quanti i membri della comitiva. La prima volta che mi è successo non avevo capito bene la richiesta; mi si sono avvicinate due ragazze sorridenti e piene d’entusiasmo, in un primo momento pensavo mi chiedessero se potevo far loro una foto, invece no, loro volevano fare una foto con me. Mi hanno messo in mezzo al centro e hanno chiamato tutto il resto della famiglia, che a quel punto ho visto avanzare molto numerosa, uomini e donne di varie generazioni e tutti quanti si sono messi a scattare foto a noi come se fosse un servizio stampa, cambiando ogni volta la disposizione dei membri della famiglia e l’ordine.

 

E’ in quelle situazioni che vedi i sorrisi e la gratitudine continua e la curiosità spiccata, ingenua come quella dei bambini; iniziano di norma a chiedere domande su chi sei, di dove sei, se sei sposata, hai figli ecc. e potrebbero andare avanti così per ore.  

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Ho iniziato a esplorare spesso da sola, ora che mi sono un pochino ambientata e non ho più quegli strappi al cuore dei primi giorni, posso vantare un piccolo senso di orientamento geografico e l’autonomia di avere a disposizione una meravigliosa bicicletta, noleggiata per meno di un euro al giorno.

 

 

 

E’ stato come avere improvvisamente dell’acqua nel deserto; dopo giorni che arrancavo sudata e stanca a piedi tra traffico, distanze interminabili e giornate in città in cui si tornava a casa a notte tarda stravolte e senza aver più visto il proprio bagno, vagamente pulito, dalle prime ore del mattino, l’avere una bicicletta è stata la volta e mi consegnato direttamente le chiavi dell’autonomia e della libertà.

Ho percorse le vie, un tempo spaventose, con la mia borsa a tracollo e i vestiti leggeri con cui non mi sentivo più nuda come il primo giorno, sentendomi suonare claxon e trombette da tutte le direzioni e scoprendo che quel gesto il più delle volte è un solo un saluto, un segnale, una specie di capodanno o matrimonio tutto l’anno. Perché è sempre rumori, canti e confusione e tutto è straripante nelle strade, perché stare in silenzio se si può manifestare a gran voce la propria esistenza?

 

O forse io credo, sia l’unico modo che hanno per far udire la propria voce, per crearsi e conquistarsi quello spazio vitale che altrimenti non ci sarebbe, nel fiume umano continuo e incessante, nell’assenza di regole canoniche come noi siamo abituati, codice della strada ecc. Appena arrivata, questa è una della varie cose che ti creano grande stanchezza e capogiro, sembra che non si ci sia nessuna aria da respirare in città.

 

Oltre a sentire un inquinamento molto al di sopra dei livelli che noi conosciamo, si uniscono odori molto forti di tutti i generi. Quando si cammina, si è continuamente sballottati nel gorgo, senza possibilità di avere la minima “aria” tra la propria persona e l’ostacolo successivo. Può essere una persona, un’auto, un motorino, una mucca, qualsiasi cosa, è tra te e i il tuo cammino e ti toglie spazio! Tutto ti viene incontro in modo immensamente vicino. O forse nessuno fa caso a te.

Una riduzione del proprio ego e dell’Io come centro del mondo, viene subito percepita, qualcosa forse va ridimensionato, e inizia da questa piccola cosa concreta e semplice, come il camminare. Un esercizio sulla proprio postura esistenziale, sul proprio modo di incedere nella vita, osservarsi dal di fuori di noi stessi, già racconta tanto. Ho visto persone occidentali sgomitare e arrivare sfinite per non riuscire a giungere dove volevano, ho visto altri che non si sono più mossi dalle zone protette e meno indiane, pur di non trovarsi a confronto con tutto questo mondo altro, ho sentito racconti di alcuni che soffrono di attacchi d’ansia e di panico a cui è successo di bloccarsi proprio nel mezzo di queste strade e non riuscire più ad andare né avanti né indietro.

 

Una paralisi di vera e propria paura.

 

Io stessa, pur non soffrendone, ma essendo come una carta assorbente che non sa mettere schermo tra me e il resto fuori di me, molto spesso sono arrivata stremata alla fine della strada. I sensi tutti all’erta per evitare di cadere, di pestare cose o persone, le percezioni vive per non farmi investire oltre che dalla loro spericolatezza al volante, anche dal tenere a mente che la guida è  a sinistra e già questo ti sposta tutti i parametri nelle strade, perchè arrivano da tutte le direzioni, e i motorini e i risciò sono tantissimi.

 

Stare inoltre attenta alla borsa al collo, almeno un minimo e non perdermi un’altra volta nella città per non fare altri chilometri inutili in quartieri da cui non si riesci più ad uscire, che accade di continuo perché non ci sono riferimenti, visto che i negozi  sono baracche con la roba ammonticchiata fuori, le scritte sono tutte in hindi e i posti sembrano tutti i luoghi e nessun luogo.

 

 

 

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Insomma ci ho messo un bel po’ di giorni a creare dei punti fermi nella mia mente che formassero una piccola cartina geografica, un negozio, un colore, una scritta, un angolo, poi finalmente dentro si è messo il disegno e non per vie razionali, quelle erano le più sbagliate a cui cercavo di aggrapparmi, ma a cui ho dovuto rinunciare. Cercare con i nostri parametri dei punti di attracco, dove ti pare di vedere barlumi di terra ferma, risultava ogni volta penoso ed era un continuo dispendio di energie….

 

Così è stato un po’ come tutte le iniziazioni.. quando arresa, ho smesso di cercare, e ho smesso di voler arrivare a tutti costi o non sbagliare strada e stremata mi sono lasciata condurre dalla marea che mi trascinava con sé e ancora di più, mi sono arresa al contatto con gli altri esseri umani che in tutto questo mio penare, erano sempre stati proprio accanto a me, ho scoperto che la bellezza e la gioia erano proprio sempre state lì. Ero io a tenerle lontane con la paura

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Penso a tutti gli workshop e i lavori sul corpo e spirito che esistono per avvicinare le persone alla corporeità e alla vicinanza con l’altro, cose che tra l’altro amo, come biodanza, contact, bioenergetica, teatroterapia, cerchi sciamanici e quant’altro va diciamo di moda da noi in Occidente negli ultimi anni, quando invece basterebbe semplicemente imparare a camminare e stare dentro nel famoso istante presente tanto ricercato.

 

Immersa fino a sopra il collo dentro qualcosa da cui non mi posso più difendere perché mille volte più grande di me e soprattutto qualcosa che genera da più direzioni la mia totale impotenza assoluta, resta solo la bellezza e lo stupore di fare la cosa contraria rispetto al chiudersi o difendersi, ed è quello di aprire e allargare tutte le maglie della propria pelle e assorbire.

 

Non si può più pretendere di stare distanti e nella nostra corsia di camminata, algida e con lo sguardo che oltrepassa le cose e le persone andando dove si deve andare, come noi siamo abituati nelle città in corsa, nell’Occidente senza macchia, senza avere mai intralci nei nostri programmi di vita. Qui in India si cammina gomito a gomito, si respira vicini, spesso addosso l’uno sull’altro, si è anche molto spesso scalzi, con i piedi degli altri sporchi e vicini al tuo piede, sul suolo che non è pulito nemmeno lui, qui si è dentro il teatro, come su un enorme palcoscenico danzante, non si è nel pubblico un po’ assonnato a guardare la vita che ci passa davanti.

 

Ora no, sono immersa nel fiume in piena e il mio obbiettivo individuale dovrà per forza essere trasformato da quello che mi sta intorno, dal resto del collettivo in cui sono immersa, a cui non posso più non prestare attenzione.

Non sei più da solo con il tuo orticello da seminare e la tua staccionata che ti separa dal resto fuori. Sei parte di qualcosa di più grande che è tutto il genere umano e prima o poi devi farci i conti, senza tapparti gli occhi e il naso e quando poi la tua camminata prosegue a piedi scalzi, davvero inizi ad affidarti alla terra.

Madre terra che senti per la prima volta come sostegno sotto i piedi.

 

Prima lo sapevo a livello teorico, ora la sento tutta intera che mi pervade dal dito alluce alla punta dei capelli…. E davvero è lì cheè iniziata la magia, perché è solo in quell’istante che sono atterrata in India con tutto il mio corpo. Noi, con tutte quelle scarpe, armature e confini a proteggerci l’anima e la pelle…. quando il respiro degli occhi delle persone che ti vengono addosso entra come laser e si fonde con il tuo respiro, ti chiedi, come hai fatto tutto per questo tempo, a rimanere così distante e protetta dal tuo scudo di sicurezze. Dalla cinta di paletti che hai disseminato per non essere scossa dal tuo torpore.

 

E’ tutta una questione di ritmo; ho guardato le mucche e e l’ho capito.

 

Sono riuscita a comprendere che come una mucca può allattare il suo piccolo nel mezzo di un incrocio stradale e non farsi spostare di un centimetro da tutto quello che le ruota intorno, anch’io posso modulare il mio tempo da dentro. Il respiro mi ha condotto per mano dentro la mia camminata lenta nella città in corsa, ho di nuovo compreso e in un altro modo ancora, il perché gli indiani da secoli e secoli sanno meditare, ascoltando il mio respiro per la prima volta fino dentro la pancia, ho potuto ancorarmi ad una pace che nessuna cosa fuori avrebbe potuto portarmi via.

 

Ho spalancato gli occhi e tutti i colori dell’India hanno potuto venirmi incontro in un abbraccio grande come la volta del cielo e non più in una spaventosa minaccia.

 

 

Anna Elisa 

 

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Foto originali copyright Anna Elisa Albanese

 

 

 



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