Silenzio.
Un racconto d’inverno a Budapest
Autobiografia astrologica: Mercurio isolato nel Tema Natale. Per lungo tempo, la comunicazione nella mia vita, è rimasta solo all’interno di me stessa, e non ha preso contatto con il mondo fuori e gli altri. Ecco un mio racconto giovanile che narra di un’esperienza di parole non dette e di silenzi carichi di significato. Spesso immaginato, proprio perchè non potuto esprimere.
SILENZIO. Un racconto d’inverno a Budapest
Comprese tutto solo in quel momento. Quando quell’ultima notte, sentì lo sbattere di una porta alle sue spalle nel lungo corridoio dell’hotel. Per interminabili istanti era stata fuori dalla porta di lui lasciata socchiusa. Immobile, esile figura nell’oscurità ascoltava il rapido respiro nel suo petto mentre il desiderio invadeva come un mantello soffocante ogni centimetro della sua pelle. Solo ora lo avvertiva. .. Solo ora. Puro desiderio.
Neppure un suono uscì dalla sua bocca. Silenzio. Quello stesso che li aveva fatti incontrare, ora li divideva. Si erano conosciuti una mattina molto presto nel bar del grande hotel sulle rive del fiume, A. lo aveva guardato fare colazione, sul tavolo c’era il suo copione con attaccata una fotografia di due bambini, i suoi figli, lui aveva bevuto un caffè fumando rapide boccate da una sigaretta, lei allo stesso tavolo gli aveva sorriso. Lei non parlava la sua lingua, rimaneva spesso con il volto contratto a cercare di capire dall’intonazione delle sue parole un significato immaginario, misterioso, lo ricamava intorno alla sua bocca guardandolo, quasi che la vista andasse a compensare suoni non codificati. Avevano smesso parlare da subito. Ogni frase detta in una lingua che non apparteneva ad entrambi risultava banale e fastidiosa, come complici di un accordo segreto scelsero il silenzio.
Salivano ogni mattina sull’auto che li portava sul set, il freddo congelava in tante piccole goccioline l’acqua del Danubio creando della nebbia trasparente che spargendosi sul fiume li abbagliava di luce. Come una fotografia sovraesposta il biancore invadeva tutta la scena lasciando appena intravedere i ponti e i palazzi antichi di una Budapest all’alba.
Ed ogni volta era solo questione di un attimo. Il volto di lui a cercarla, lei che distoglie lo sguardo dal finestrino incrociando i suoi occhi. Intorno a loro nient’altro che il suono sordo dell’automobile.
Quando arrivavano sul set venivano divisi, non potevano più parlare coi loro gesti piccoli, nessuno doveva sapere, nessuno doveva vedere. A. era tenuta d’occhio e osservata con una certa antipatia dal resto della troupe, lei quasi laureata all’Accademia di Brera, la mocciosa che aveva studiato, erano le voci dei macchinisti romani e di alcuni anziani della troupe, lei, la piccola bambina che ancora manteneva l’entusiasmo per ciò che aveva imparato e ci credeva fiduciosa, forse illusa, e in ultima istanza aveva anche la sua gioventù tra le mani, vivida in quegl’occhi grandi spalancati come una finestra sul mondo che voleva assorbire tutto intero.
T. invece era invece trattato come un divo, le donne più grandi lo proteggevano come madri, il regista lo coccolava, le truccatrici e le parrucchiere se lo sarebbero mangiato vivo e le sarte se ne stavano inginocchiate per terra ai suoi piedi felici solo di toccare il lembo dei suoi pantaloni. Lui sembrava esserci abituato e non prestava particolare interesse a ciò che lo circondava, lo sguardo azzurro verso chissà dove e la sua solida gelida distanza nelle spalle. A. andava fiera di quella sua estraneità, senza esserne del tutto consapevole lo seguiva felina con gli occhi anche quando era molto lontana e le ore iniziavano a scorrere lente con l’aria gelida di dicembre a conficcarsi nelle ossa e il fiume lasciava la sua nebbia bianca per fare posto al giorno pieno. L’acqua tornava a scorrere come una qualsiasi acqua grigiastra sotto gli immensi ponti di Budapest, e Laura, la truccatrice giungeva ogni mattina sempre più rapida a portare T. nel camper, parlando un tedesco perfetto, acuto, invadente.
Il fatto che fosse l’unica a comunicare con lui nella sua lingua le conferiva un diritto inequivocabile di possesso e esclusività. Con i suoi modi da maschietto sbarazzino pur avendo quasi cinquant’anni lei lo faceva ridere e scherzare ed A. quando entrava in quel luogo riusciva solo a sentirsi un’estranea. Udiva le parole come un indistinto nuvolo di suoni fastidiosi che le penetravano nelle orecchie. Lei lo guardava riflesso nello specchio che come un bambino dispettoso giocava nella sedia girevole facendosi supplicare di smetterla e lei non poteva fare a meno di ridere. Poi in silenzio uscivano.
Lei aveva dimenticato di avere una voce con lui. Questo la rendeva più fragile ma anche più ricettiva a qualsiasi stimolo sensoriale. Non poteva comunicargli un pensiero e nemmeno poteva nascondersi dietro la sua abile parlantina come era abituata a fare quando voleva confondere. E confondersi. No, doveva arrendersi alla lentezza, al loro stare vicini senza parlare per periodi di tempi indefiniti, all’ascoltare i suoni intorno che diventavano i loro suoni, ad aspettare che in momenti inaspettati si creasse naturalmente un loro codice di comunicazione altro. Incomprensibile agli altri.
Una sera erano andati in un antico ristorante lungo il Danubio. Lei pareva non accorgersi dei suoi occhi che la scrutavano, la cercavano e la sfuggivano in un gioco a rimpiattino, anche se lei in fondo faceva esattamente la stessa cosa con lui.
La tavolata era piena di gente, il caso non li aveva fatti sedere vicini, ma era come lo fossero ugualmente. Nel vociare di parole che si propagavano in modo indistinto lungo il tavolo riuscirono ad assaggiare dallo stesso bicchiere una dolce grappa ungherese. Lui le aveva sfiorato la mano porgendogli il piccolo calice, e lei aveva riso colto di sorpresa. Un vecchio dalla barba bianca si era avvicinato con un violino zigano e aveva suonato a lungo. La musica si era propagata nell’aria come un antico canto che toccava le zone remote dell’anima, quelle in cui non ci sono né il tempo né lo spazio, ma tutto scorre eterno.
Pianse di nascosto, tra l’emozionato e lo stanco dalle ore senza sonno del lavoro ininterrotto, non si era accorta di essere felice. Non si era accorta di non aver pensato a nulla se non al suono di quel violino, al sapore di quel cibo, e ai sorrisi di T. che le giungevano improvvisi come stelle cadenti.
All’uscita del ristorante lui alle sue spalle, le aveva spostato con la mano i capelli per aiutarla e mettere il giaccone, e con le dita le aveva sfiorato il collo. Un istante solo per essere lì. Tutta se stessa solo in quella piccola parte del suo corpo, come se la verità e le risposte non potessero trovarsi che lì, in quell’unica porzione di pelle lasciata vulnerabile.
Poco dopo altra gente e persone a volume troppo alto la portano via. In taxi nella strada del ritorno il regista che racconta aneddoti da ubriaco. La notte gelata fuori dal vetro, A. straniera a se stessa e a quella città fuori dal finestrino che non riesce a toccare. Ma non bastò quella notte e neppure i giorni successivi, forse avrebbe avuto bisogno di più tempo? Nessuno può saperlo, lei era in quei luoghi nuovi con altra gente intorno, tanta gente, troppa sempre, doveva correre, eseguire ordini, sentire il freddo nelle ossa e tra le varie mansioni doveva anche occuparsi di lui. Che ci fosse all’inizio delle riprese, che sapesse la scena che si doveva girare. Era lei che ogni mattina gli dava il buongiorno e lo vedeva scendere nella hall con il viso stropicciato dal sonno, era lei che lo attendeva mentre con assoluta calma beveva lui il caffè e fumava la sua sigaretta.
Niente di più. In silenzio, musiche natalizie in sottofondo e stranieri che facevano colazione nella sala semivuota. Erano gli ultimi ad andare sul set, la troupe partiva prima, lei stava con lui ad attendere l’autista. E tante volte anche durante il giorno erano tornati in albergo e si erano trovati ognuno nella propria stanza, in quel lungo corridoio, separati solo da una parete. Lui riposava un poco, lei attendeva che le dessero il segnale per ricondurlo sul set. Era tempo, nient’altro che tempo che pareva immobile, insignificante, vuoto. Astratto come l’aria che divideva i loro sguardi.
Arrivò l’ultimo giorno di riprese che fu un giorno uguale a tutti gli altri, e arrivò anche la sera. Aveva cominciato a nevicare, nell’auto che li portava al ristorante A. e T. sedevano vicini, c’era anche Laura la truccatrice nei sedili posteriori, che faceva da intermediaria tra lui e il regista davanti. A. guardava la città ricoprirsi di bianco. Pace cristallina nelle strade vuote e il suono della sua voce accanto, suoni aspri e nuovi di quella lingua tedesca che aveva imparato ad amare, che si confondevano con i fiocchi che cadevano leggeri fuori dal finestrino. Si lasciava cadere anche lei con le gambe a contatto con quelle di lui. Calde. Quando uscì dall’auto se lo ritrovò accanto, con un gesto burlesco e nello stesso tempo serio lui gli aveva afferrato il polso fino a scendere alle dita e avevano camminato qualche metro tenendosi per mano. Felicità. Le mani fredde di neve, nei volti i fiocchi che bagnavano le guance. Scappare: quello per un secondo è balenato dalla neve in cielo. Al diavolo il ristorante! Al diavolo tutti e questo fottuto film! A. voleva solo quella mano nella sua. Dio mio quanto la voleva.
Al ristorante erano circondati, stipati, stritolati dalle sedie e dal vociare fitto di quella che ha l’atmosfera di una cena che è l’ultima cena. Tutto è allegro e triste alla stessa maniera. Forte e disarmante. Iniziarono così a bere vodka e caviale, seduti uno davanti all’altra, e a brindare ripetutamente come due ragazzini nell’ultimo giorno di scuola. Quel gesto li rendeva euforici, anzi di più, era il loro unico suono, il loro unico urlo. Il tintinnio dei due bicchierini che si scontrava dava materia alla loro così astratta distanza. Quel suono metallico e acuto pareva riempire loro la bocca di parole che mai si erano detti, e l’alcol in corpo scaldava, e come scaldava! Quando tornarono tutti quanti in hotel erano le due di notte passate e tutta la troupe si era fermata nella grande sala vuota perchè nessuno voleva andare a dormire, anche se la stanchezza era tanta e l’alcol aveva intorpidito i corpi, ma tutti sapevano, ognuno per motivi diversi, che andare a dormire significava la fine di tutto, nell’ultima sera, in una città che li aveva visti parte della stessa famiglia. Da domani sarebbe tornata la vita reale e nessuno era pronto a celebrarla ancora.
Decisero di scendere al night al piano inferiore. Il regista prese A. a braccetto, poco più indietro T. iniziò a chiacchierare con Laura. Scesero la scalinata di moquette rossa le luci erano soffuse in quello strano posto popolato esclusivamente da individui soli. Su un piccolo palco una donna cantava vecchie canzoni americane. Laura si sedette ad un tavolino circondato da divanetti, il regista accanto, uno dei parrucchieri a seguire e l’aiuto regista gay. T. e A. in piedi immobili. Vicini come fossero stati incollati al pavimento. Uno di fronte all’altro senza potere toccarsi, stringersi, perdersi, finalmente far crollare le ginocchia che tengono su quell’impalcatura da troppi giorni.
Impotente il desiderio di lei.
Assoluto.
Inespresso.
Impotente ancora di più la coscienza di quello stesso desiderio tenuto sotterraneo. Maestoso ma arginato. Come lava che scorre sotto la terra. Magma sfuso. Tenuto a bada dalla crosta terrestre. Ancora e ancora addomesticato. Filtrato. Pensato. Con un calcio nervoso rigettato nell’ombra e giustificato dalla ragione.
Denso come il fumo di sigaretta che T. aspira quando siedono ancora come niente fosse uno accanto all’altra. Il terremoto nel petto. Il viso imperturbabile dei loro stessi occhi abituati a mentire, a recitare come si conviene la parte che il mondo si aspetta da loro. Manca la forza di abbattere tutti quei muri che conducono solo a strade conosciute e confortevoli.
E ancora una volta era stato un attimo. Il viso che si avvicina al volto di lei, le labbra di lui che si avvicinano al suo bicchiere sorseggiando lentamente, come se quell’intimità silenziosa fosse la cosa più semplice della terra. Come se quella vicinanza, fosse davvero la loro vicinanza. Ed è come stesse bevendo dalla bocca di lei, perché quella è l’unica cosa che ora può fare. Gli porge il bicchiere ed è lei a sua volta a baciarlo, a sentire il freddo del vetro sui denti dove lui li aveva appoggiati.
Arrivarono al tavolo delle donne molto belle, erano prostitute. Una si accovacciò accanto a T., con una minigonna di pelle e una parrucca bionda, parlava a voce alta ridendo di continuo con gridolini acuti, sapeva il tedesco. Lui sembrava piacevolmente interessato le aveva tolto la parrucca e se l’era messa in testa, la ragazza aveva riso con le sue labbra di rossetto e gli si era seduta in braccio. Gli toccava i capelli e lui si lasciava fare. Ne arrivò un’altra con lunghi capelli rossi e si mise a parlare in italiano confuso con il regista, lui non faceva che ridere, mentre Laura gli ricordava prontamente la moglie e i figli a casa ad aspettarlo. Sembrava una scena a rallentare di quei videoclip musicali sesso droga’rock roll ma A. iniziava a sentire delle crepe nel petto, e le parve di trovarsi improvvisamente gettata lontana nel punto più lontano e buio dell’emifero. Forse quella vicinanza se l’era sempre sognata.. chissà, e ora perderla così di colpo le faceva un male che non aveva previsto.
Intorno a lei la scena era sempre più fuori sincro, ognuno tentava di comunicare con l’altro ma le voci e le intenzioni arrivano ritardate come da un infinito eco, sovrapposte una all’altra con tonalità sfalsate, o troppo basse o troppo alte. O forse parevano tutti sordi. O non c’era assolutamente più bisogno di parlare. La donna sulle ginocchia di T. si alzò aggiustandosi la gonna cortissima e lo guardò con le sue pesanti palpebre di ombretto nero e si allontanò nel buio. Anche l’altra ragazza si discostò dal tavolo continuando a ridere con il regista che le toccava le gambe affusolate, arenato sui divanetti.
Rimasero tutti immobili, vittime del loro osservarsi senza tregua e della loro inerzia che li ancorava al terreno. Senza farli volare. Ed è sotto gli occhi di tutti che T. si alza in piedi di scatto, si avvicina ad A. ancora in balia del divano, si chian davanti a lei appoggiandole le mani ai fianchi e stringendoli. I loro volti sono uno davanti all’altro. Così pochi centimetri che A. inghiotte la saliva rimastole appiccicata alla gola, immobile lui la fissa e con il volto quasi addosso al suo avvicina le sue labbra all’orecchio bisbigliandole qualcosa, è come se soffiasse il suo alito caldo in tutto il corpo di lei. La prima volta che le parlava. Si, ma cosa le aveva detto?!?
Non aveva sentito, non aveva capito, non aveva capito maledizione! Doveva saperlo, doveva chiederglielo!! Voleva stringere anche lei quelle mani quel volto tra le sue, voleva dirgli di si, si, si, anche se non sapeva a cosa, era certa che voleva dirgli solo di si. Quel si che ora poteva dire, soprattutto a se stessa, quel si che non aveva mai potuto dire per quelle persone sempre intorno, per quel lavoro che le impediva di respirare, di vivere liberamente senza essere giudicata.
Troppo tardi, quando lei si voltò lui non c’era già più.
La sala alle sue spalle era quasi vuota. Rimasero gli sguardi fissi su di lei di tutti gli altri, rimase il suo posto vuoto accanto, una triste canzone di sottofondo erano scomparse improvvisamente anche le prostitute. Lo sguardo di Laura fermo nei suoi occhi mentre diceva un’unica cosa, che T. era andato in camera sua ad attenere la ragazza con la parrucca bionda, lei capiva la loro lingua, lei aveva sentito quello che si erano detti prima, lei lo conosceva bene, era fatto così, parlavano spesso….parlavano spesso loro… Con queste parole nella testa A. risaliva le scale di moquette rossa, sola, ed avrebbe voluto vederlo apparire oltre il prossimo scalino, e poi più su nella hall. No, non c’era. L’enorme sala vuota ancora più grande con il silenzio della notte e le luci spente. Oltrepassò i grandi alberi di Natale, una mattina lui era sbucato da lì dietro facendole uno scherzo e lei aveva riso, ora erano solo cupi fantasmi nella penombra. Perché non l’aveva baciato allora? Un semplice bacio sulle loro labbra mute. Era così vicino, erano così vicini, perché non si era mai accorta di questo?
Prese l’ascensore ed infine si trovò lì nel corridoio. Camminò qualche metro, l’aveva fatta quante volte quella strada, ma ora udiva il rumore dei suoi passi sul tappeto e la tensione nervosa di tutto il suo corpo. Passò di fronte alla sua stanza, la porta era socchiusa, si vedeva il chiarore della luce sotto il pavimento. Un pomeriggio era entrata lì dentro, doveva ridargli il copione che lui aveva dimenticato in auto, si erano guardati a lungo negli occhi sempre in quel loro modo fanciullesco, e senza dire nulla poi lei se ne era andata.
Ora era immobile davanti alla sua porta. Paralizzata. Perché tutto quel silenzio nella stanza? La donna era già arrivata? Lui aveva lasciato la porta aperta per quella prostituta? Avrebbe voluto solo riuscire ad emettere un suono, con un filo di voce dire il suo nome. Lui l’avrebbe sentita ne era certa. Maledetta voce l’aveva persa in tutti quei giorni.
E maledetta ragione che la teneva ancorata al terreno invece di farla entrare di corsa nella stanza e riempirlo di baci e toccargli i capelli, tirarglieli, stringerlo, farsi stringere e abbracciare le sue spalle e chiudere gli occhi finalmente. Arrendersi al fiume in piena che la voleva trascinare docile da troppo tempo. Ma il sogno che lei aveva di lui, forse era più bello ancora di qualsiasi incontro, che nella materia, nel corpo, nello squallore forse del racconto di una notte, sciuperebbe ciò che invece, non saziato poteva rimanere puro. Lei allora non lo sapeva, ma forse, il vero contatto con l’altro, non lo cercava davvero. E poi quale contatto…? Se tutto era racchiuso nelle sue emozioni e suggestioni poetiche.
Furono attimi eterni di esitazione e di sangue caldo nelle vene che arrivava fino alla testa scendendo poi come un fuoco al petto fino alla pancia e al bacino. Avvicinò più volte la mano per bussare, per bussare a una porta che era vera e tangibile di fronte ai suoi occhi, ma non lo fece e presto fu tardi. In fondo al corridoio delle voci di donne, risate, le vide avanzare abbracciate, la ragazza dai capelli rossi e quella con la parrucca bionda, oscillavano, si appoggiavano ai muri sbandando sui tacchi altissimi. Risate fragorose. Ampie come sberle in piena faccia. La rossa bussò ad una porta che le venne aperta, l’accolse una voce di uomo, entrò, la porta si chiuse. Rimase solo la bionda nello stretto corridoio, A. si nascose dietro l’angolo dove il corridoio si dirama fino alla sua camera. Il fiato le pulsava nella gola, e le sue mani tremavano mentre infilava le chiavi nella serratura nella sua stanza. Ed è in quel silenzio che la voce della ragazza bionda tuonò spezzando l’aria, una voce maschile non udibile aprì una porta. E fu soltanto quando A. tornò nella sua camera solitaria che era notte fonda, che avvertì forte il rumore della porta di lui chiudersi. Definitivamente chiudersi. Nessuno spiraglio rimaneva per lei. Comprese tutto solo in quel momento. Il mondo che c’era stata tra loro, il loro piccolo mondo di suoni e gesti insignificanti rimaneva solo ora dentro di lei. Urlante. Non aveva potuto ridarlo a lui.
Non aveva potuto dividerlo con chi gliel’aveva fatto conoscere non aveva potuto chiedergli, mischiandosi al calore del suo respiro, se mai era esistito. Immobile, appoggiata con la schiena al muro A. non poté fare altro che starsene ancora una volta in silenzio. Questa volta insopportabile per la sua gola che aveva voglia di urlare, e il suo corpo così vivo da poterne sentire pulsare ogni frammento. Non tornò nel corridoio. Rimase lì ferma senza dormire fino quasi all’alba.
La mattina Laura la truccatrice la accolse radiosa dicendole che T. aveva chiesto di lei, dov’era finita la giovane italiana che non aveva salutato e poi le aveva raccontato con voce rauca che era stata in camera da lui a bere alcolici dal frigo bar fino a poche ore prima del suo volo.
A. e T. non si videro mai più. Lui aveva preso il suo aereo per Berlino quella mattina all’alba e lei era tornata in Italia. Lo pensa ancora a volte. Quando parole e parole la travolgono e le pare di soffocare nella sua stessa voce che non riconosce più. Ripensa allora a quella notte a Budapest. Al suono della neve che cadeva dal cielo, bastava avere la pazienza di affinare l’orecchio e starla davvero ad ascoltare per rendersi conto che poteva essere qualsiasi cosa, fuorché silenzio.
Anna Elisa
10 gennaio 2001
Anna 10/01/01