Autobiografia d’infanzia: Il Natale
Nel periodo delle scuole elementari all’avvicinarsi del Natale, mia madre prendeva rotoli e rotoli di carta da pacchi marrone e la metteva per terra: erano grandi fogli, per me almeno lo erano e poi con i pennelli e tutte le tempere sparse ovunque, li colorava: erano le montagne – con il pennello formava macchie rosse, gialle, marroni, senza una forma, senza un nesso. Io ridevo e le dicevo “Ma le montagne non sono rosse?!” Lei mi rispondeva “Sono anche rosse” ed io “Ma le montagne non sono blu!” e lei “No sono anche blu”.
E’ grazie a mia madre che ho imparato a vedere i colori e a dipingere, a saper vedere in futuro le persone che non hanno i colori dentro e che non vedono quindi nemmeno i colori fuori.
Dopo aver dipinto le montagne prendevamo i libri, scatole e li mettevamo sulla cassapanca, erano gli ingombri delle montagne. Mia madre accartocciava quella carta come ci fosse nata insieme alla carta da pacchi dipinta, come già sapesse cosa creava. Io avevo paura si rompesse, io avevo paura perché nulla era ordinato. Io che cercavo ordine per avere dei confini a cui appoggiarmi, io che cercavo ordine per ancorarmi – ma mia madre non sapeva cosa fosse l’ordine, né aveva mai sentito nominare la parole confini. Tutto però in questo disordine fumoso diventava improvvisamente meraviglioso, come una magia che accade e basta, senza averla nemmeno lontanamente prevista.
Mia madre è veneta, e conservava le antiche statuine di gesso di quando era bambina a Padova e faceva il presepe a sua volta. Io conoscevo ogni statuina e ad ognuna ero legata. Erano vive per me, quasi come quelle enormi delle chiese, che rimanevano le mie preferite in assoluto.
Il compito finale, quello che facevo solo io, esclusivamente io, era porre le statuine nel presepe. Mia madre dopo aver allestito le montagne metteva per fissarle delle pietre che raccoglieva nei fossi o vicino ai torrenti di campagna, ed era lì, che munita di un coltellino e di un grande sacchetto prendeva il muschio. Il muschio che aveva raccolto lei stessa nei campi, lontani dalla città, quello verde come mai mi sembrava di aver visto un muschio. Ne mettevamo tanto, zolle di muschio dall’odore forte di terra bagnata.
Ero molto fiera del mio presepe, gli altri bambini in classe facevano uno stupido albero finto con le palle colorate; lo odiavo, certo, perché lo invidiavo terribilmente.
Allora essere diversa era un gran peso.
Immaginavo famiglie riunite felici sotto quell’albero di plastica luccicante, io invece con quel presepe avevo solo un muto colloquio intimo e solitario.
Non era in sala, era in camera, l’unico posto disponibile, ed io, in quegli anni vivevo solo con mia madre. Ogni notte lei mi teneva accese tutte le lucine, rigorosamente antiche e nascoste tra il muschio e le pietre come fossero piccoli fuochi, e non ad intermittenza. Io mi addormentavo guardandolo; guardavo il pastorello che porta l’agnello sopra le spalle, guardavo la lavandaia inginocchiata a lavare i panni vicino al fiume fatto in carta stagnola.
Ogni statuina aveva la sua lucina, posta con cura, i fili nascosti dal muschio morbido, ogni pastore con la sua lanterna.
Sapevo che il mio presepe era il più bello. Gli altri bambini compravano il muschio secco del supermercato, e i fili non erano coperti, le montagne poi non erano dipinte di rosso, di giallo, di blu.
Forse tutto il segreto risiede da lì il fatto chi io abbia studiato poi Scenografia, e che sappia entrare in un palcoscenico e credere di essere su un lago, sulla luna, o nel deserto. Ci credo ora, come ci credevo allora.
Ricordo anche la solitudine di quel presepe.
Ricordo che avrei voluto non essere sola con lui.
Ricordo l’invidia per le case degli altri con quei brutti presepi di plastica e gli alberi di Natale di plastica, però tanta gente e tanto Natale intorno.
L’unico evento che mi portava in un Natale sociale, e che mi spaventava ed eccitava nello stesso momento era la Vigilia. I miei genitori erano separati e mio padre passava a prendermi e mi portava a Bresso vicino a Milano dai suoi parenti. Dico suoi, perché per me, erano veramente suoi. Il fatto che mia madre fosse lasciata a casa era un fatto incomprensibile e già questo creava una sorta di magone.
Però c’era gente. Avevo un bisogno enorme di gente e di festa, e quindi andavo, e chissà tra il magone e l’ansia, ero anche un po’ felice. Uscivo di casa con una sensazione addosso sulla pelle che era come avere un tappeto volante sotto i piedi, planare ed ergersi in volo mio malgrado, sopra la città silenziosa della notte di Natale, io ci stavo sopra, fiera ed eretta, ma anche scontrosa e sofferente perché un pezzo di me mancava sempre: mia madre non c’era mai su quel tappeto, ed io non ne capivo il motivo.
Bresso è importante, perché a Bresso il 24 dicembre o c’è la neve o c’è la nebbia, e io ricordo quel freddo come fosse ieri e quella paura appena chiudevo la portiera dell’auto e sapevo che dovevo salire in quella casa di parenti, non miei, ma suoi.
Si apriva la porta, e subito festa, vecchie anziane che mi venivano a toccare: “ la figlia di Franco, che bella, che dolce, che cara…” Non sapevo nemmeno chi erano, ma tutti sapevano chi ero io. Poi arrivavano quelli che credo fossero i miei cugini, erano più grandi, soprattutto erano tutti uniti e tutti allegri e chiassosi. Io mi sentivo tremare e smettevo come sempre definitivamente di parlare.
Cercavo il presepe, volevo vedere il loro presepe per cercare pace nelle statuine, perché mio padre non mi teneva più la mano e mi aveva lasciato lì, tra la gente, e io avevo paura di qualsiasi cosa perché il mondo per me era un nemico subdolo da sconfiggere e da temere, e tutti quei volti che non conoscevo mi facevano solo girar la testa, avrei voluto scavare una buca e sotterrarmi lì, in mezzo ai dolci e ai canti natalizi.. “Dov’è il presepe?”, sapevo solo dire, “No tesoro. Noi abbiamo l’albero.”
E così andavo vicino all’albero e pensavo che le palle colorate ce le hanno le famiglie felici ed i presepi invece tutti gli altri.
Sotto l’albero un mucchio di regali. Fissavo i regali con consapevole rabbia, dolore anche. Loro aprivano i regali a mezzanotte, ma prima avevano un rito, e questo me lo ricordo bene, perché rappresentava l’apice del terrore di tutta la serata.
Tutti i bambini a mezzanotte dovevano accendere quei fuochi scintillanti che scoppiettano e si tengono in mano, io avevo paura perché ogni volta questi cugini, che io non ritenevo i miei cugini, me lo avvicinavano così tanto al viso, che mi ero anche bruciata. E poi nel rito, la più piccola, che ero io, portava in mano il bambin Gesù e lo poggiava sotto l’albero, in un orribile culla tra la paglia secca. Questo era l’unico momento di gloria della serata, io mi ricongiungevo con la mia statuina di Gesù, e scattavano tante foto.
Pochi minuti dopo ritornavo nell’ombra, perché era mezzanotte e tutti si avventavano sui regali, io forse venivo elargita di un mini regalo giusto per non farmi sentire del tutto esclusa.
Ma lì ero felice perché la mia mondanità l’avevo avuta e sapevo che stavo finalmente per tornare a casa. Tornavo a casa da mia mamma che era rimasta sola, inoltre avevo ben tutta la notte per pregustarmi l’attesa dei regali che io invece avrei trovato la mattina sotto il mio magnifico immacolato puro presepe solitario.
Anna Elisa
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